Santa Messa crismale

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Santa Messa crismale

(Basilica di Gerace 30 maggio 2020, h. 10)

Carissimi presbiteri, diaconi, religiosi e religiose

Cari fedeli, cui è dato partecipare a questa celebrazione,

la Messa crismale con la quale avremmo dovuto dare inizio al triduo pasquale quest’anno insolitamente la celebriamo alla vigilia della Pentecoste, solennità che conclude il tempo pasquale: La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»…. E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. Proviamo anche noi in questo momento la stessa gioia dei discepoli nel vedere il Signore. Una gioia affatto scontata in un momento in cui stentiamo a vedere accanto a noi tutta la comunità, alla quale per molto tempo è stato impedito di partecipare alle celebrazioni liturgiche. Ed oggi è presente solo con una piccola rappresentanza. 

La pandemia ci ha duramente provato. E se, da una parte, ci ha fatto sentire vicini nella fragilità ed ha fatto lievitare la solidarietà nella nostra comunità, dall’altra ci ha aiutati a riscoprire la dimensione domestica della nostra fede. Per tanti lo stare a casa è stata l’occasione per pregare, spesso davanti ad uno schermo televisivo o via streaming. O recitando il rosario, cosa per tanti rara in passato. Come gli Apostoli siamo rimasti a porte chiuse nel cenacolo, per paura non dei giudei, ma di un virus nascosto e sconosciuto che ha seminato morte e lacrime. Abbiamo pregato per i defunti senza poter dare loro degne esequie. Abbiamo pregato per i medici e gli infermieri che con coraggio assistevano gli ammalati. Abbiamo sofferto e pregato per i tanti sacerdoti, religiosi e religiose, che sono venuti a mancare. Abbiamo temuto molto per questa nostra terra e per le debolezze del suo sistema sanitario. Abbiamo cercato di fare la nostra parte a sostegno della sanità del nostro territorio come ha fatto il Santo padre, che ringraziamo. Con fede possiamo dire che non ci è mancato lo sguardo amorevole e la vicinanza del Signore. Anche se ancora l’invisibile male non è sconfitto, possiamo ringraziare Dio, perché ci ha risparmiato ulteriori sofferenze! 

L’emergenza sanitaria ha interrotto tutte le nostre attività pastorali, compresa la visita pastorale. Ora che siamo entrati in una seconda fase, mentre la curva del contagio sembra rallentare, nel rispetto delle restrizioni in vigore, desidero riprenderla da Benestare, ove s’era interrotta. E’ il tempo favorevole, per continuare il cammino e per ridare conforto e vicinanza agli ammalati, alle persone con gravi disabilità, a quanti soffrono o sono ai domiciliari. 

E’ ora tempo di ripartire su basi nuove, sapendo che senza il Signore nulla possiamo e quando pensiamo di costruire la nostra civiltà, prescindendo dal suo amore, prima o poi sperimenteremo il fallimento! E’ tempo di restare fedeli al mandato del Signore “a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi e proclamare l’anno di grazia del Signore”. E’ tempo di grazia del Signore, che ci parla, anche quando la pandemia minaccia la nostra salute.

Permettetemi, carissimi fratelli e sorelle, di rivolgermi in particolare ai presbiteri. E’ il giorno del rinnovo delle loro promesse. Ritorna alla mente di ogni sacerdote l’unzione col sacro crisma, quel giorno che ha segnato una svolta nella vita di ciascuno e rimane per questo indelebile nel cuore e nella mente. Ci uniamo alla preghiera di ringraziamento per il dono del sacerdozio, in particolare di coloro che quest’anno compiono l’anniversario dell’ordinazione. A cominciare dai decani del clero: don Giuseppe Zancari e don Sergio Chistè (69 anni di sacerdozio), mons. Francesco Laganà (67 anni), don Pasquale Costa (66 anni), don Filippo Polifroni (64 anni), Mons. Giuseppe Raco e don Francesco Maiolo (50 anni), p. Eugenio Salmaso (45 anni), don Pino Strangio e don Mario del Piano (40 anni), don Piero Romeo e don Antonio Finocchiaro (30 anni), d. Bruno Sculli (25 anni), don Antonio Saraco (20 anni). Sino al più giovane don Antonio Peduto con meno di un anno di ordinazione. Ma tutti possiamo e dobbiamo dire grazie al Signore per gli anni di sacerdozio vissuti. A tutti dico a nome della nostra Chiesa: grazie per la vostra donazione, per il tempo che spendete nel servizio agli ultimi, per l’ascolto, per il servizio, per l’amore e la carità reciproca. Grazie anche per quanto rimane nei vostri sogni e nelle vostre belle intenzioni. Grazie di tutto, anche per quel bene che fate e che nessuno vede né mai saprà apprezzare e che solo il Signore conosce. 

Se ricordate, la mattina del giovedì santo abbiamo comunque voluto condividere un momento di preghiera, trasmesso su Telemia e via streaming, al quale tanti i sono uniti. Oggi l’essere qui in questa Basilica Concattedrale ci consente di rinnovare una tradizione che ha fatto la storia della nostra chiesa locale.

Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione…”. Sono le parole del profeta Isaia che Gesù fa sue nella sinagoga di Nazareth e che la liturgia di oggi ripropone per ciascuno di noi. E’ tempo di ravvivare il dono di Dio che è in noi, per l’imposizione delle mani (cfr 2Tm 2,6). Qual è questo dono, se non la vocazione, che abbiamo ricevuto? Una chiamata di Dio, una predilezione d’amore gratuito, che ci rende uomini, che, prendendo su di sé le vite degli altri, vivono l’amore senza risparmio. Chiamati a dare volto a coloro, “il cui compito supremo nel mondo è custodire delle vite con la propria vita” (Elias Canetti, scrittore e saggista bulgaro, premio Nobel per la letteratura nel 1981). Non dimentichiamo che il nostro essere dono è un fuoco, un amore bruciante, da alimentare. Esso, come dice papa Francesco, “non si alimenta da solo, muore se non è tenuto in vita, si spegne se la cenere lo copre. Se tutto rimane com’è, se a scandire i nostri giorni è il “si è sempre fatto così”, il dono svanisce, soffocato dalle ceneri dei timori e dalla preoccupazione di difendere lo status quo”. E’ un dono che non regge senza un solido nutrimento spirituale, senza una vera vita di fede.

Per questo la prima promessa alla quale dare risposta nella quotidianità è restare uniti al Signore. Senza questa unione, la nostra vita resterà terribilmente sopraffatta dalle circostanze, che spesso ci pongono di fronte nuove sfide, che costituiscono “un serio pericolo di scoraggiamento” (PO 22). Dobbiamo tenerne conto, in modo da guardare in faccia le nostre amarezze e confrontarci con esse”. Con grande senso di realismo, senza perdere di vista la nostra umanità, che ci ricorda che non siamo onnipotenti, ma “uomini peccatori perdonati e inviati”. Un’umanità quella del sacerdote che risente di tre possibili cause di amarezza: problemi con la fede, problemi col Vescovo, problemi tra noi. Sarebbe bello poterci soffermare su ognuna. Scelgo di soffermarmi solo sui problemi con la fede. Quelli con cui hanno avuto a che fare i due discepoli in cammino verso Emmaus, la sera di quello stesso giorno: “noi credevamo fosse Lui (cfr Lc 24,21). 

La stessa amarezza e delusione può prenderci, quando la routine quotidiana, le distrazioni, l’assecondare le seduzioni del mondo s’impossessano di noi. Quando viene meno quel fuoco che ardeva in noi il giorno della nostra ordinazione. Quando non viviamo in una prospettiva pasquale tutto ciò che accade dentro e fuori di noi. Quando va in crisi il nostro rapporto con Dio e si fa largo la depressione. Quando prevalgono la delusione o il calo delle motivazioni, l’aridità spirituale o anche la frustrazione. Quando la noia, lo sconforto, la sfiducia la fanno da padrone. Quando siamo scontenti e depressi. Quando celebrare diventa più un lavoro che una missione.

Riconosciamolo con onestà: ci sono stagioni della vita, in cui l’amarezza si fa sentire forte, tanto da essere stanchi di tutto e magari anche di un Dio che facciamo fatica a capire. Un Dio, che sembra chiederci più di quanto siamo in grado di dare. E così ci si allontana da Lui, delusi ed amareggiati. E’ in questi momenti che ci tocca gridare con i discepoli sul lago in tempesta: “Non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4,35-41). E nello stesso tempo ricordarci delle parole del Signore: “Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo” (Gv 16,33), che però non ci promettono “una perfetta vittoria prima della fine dei tempi” (PO 22).

Ogni giorno è tempo di ravvivare il dono di Dio in noi. Recuperando l’umiltà perduta, come stile di vita che ci porta a riconoscere i nostri limiti, che ci fa capire che non tutto comincia e finisce con noi, che è il caso di confidare meno nelle nostre sicurezze umane e più in Dio. Ricordiamo il giorno dell’ordinazione, quando il Signore ci ha promesso una vita piena, ma non priva di tribolazioni. Pensiamo alla nostra vita di fede che non è un cammino trionfale, ma un seguire Gesù sino in fondo, un cammino che prima o poi conosce la notte oscura, il vuoto spirituale, la paura del presente e l’incertezza del futuro. Eppure queste prove impegnano la nostra umiltà, che ci porta a guardare dentro, ad essere benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, senza ricercare ad ogni costo la colpa dell’altro. Non sarebbe una novità! Siamo nella stessa barca, mentre il Signore ci rincuora: “Coraggio, sono io, non temete!” (Mc 6, 45-52).

Nel nostro cammino sacerdotale ci aiuta a ravvivare il dono ricevuto lo stesso popolo di Dio, affidato alle nostre cure. Quel popolo che ci è mancato in questo tempo di lockdown e che oggi è appena rappresentato. Ne abbiamo avvertito la mancanza: senza di esso siamo orfani, viene meno la nostra stessa ragion d’essere. Il nostro popolo – posso assicurarlo – continua a volerci bene, nonostante i nostri limiti. Ci apprezza e ci stima. Ci è vicino e ci comprende. Ci vuole uomini di Dio, che non si lasciano omologare dalle mode correnti e dalla mondanità, che non trattano le cose di Dio con superficialità, che non presentano un Vangelo a basso costo, che non svendono la grazia ed i sacramenti, che siano convinti di possedere Dio e di poterlo chiudere dentro le nostre categorie.  In tutto questo siamo più che debitori nei suoi confronti. Superiamo la tentazione del perbenismo e il ripiegamento su uno stile di vita borghese. Siamo piuttosto preti dal cuore inquieto. Lo saremo quando prendiamo sul serio l’esortazione di San Paolo: “Ma tu, uomo di Dio…, tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza” (1Tm 6,11). 

In questa prospettiva ravviviamo il dono di Dio che è in noi e rinnoviamo le nostre promesse. 

Chiedo a tutti di pregare per i sacerdoti, perché non perdano il coraggio di essere vostri servitori. 

La grazie di Cristo ci spinga a camminare nella sua fedeltà e nel suo amore.