E’ ANCORA TEMPO DELLA MISERICORDIA

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Omelia di monsignor Francesco Oliva a chiusura del Giubileo della misericordia

(Cattedrale di Gerace 13 novembre 2016)

Si conclude l’Anno santo. Continua però il tempo della misericordia. Dio continuerà a mostrarci la sua misericordia, e anche noi siamo chiamati a viverla: “Misericordiosi come il Padre” attraverso ogni opera di bene, con la pazienza del perdono, con l’impegno per la giustizia e la pace. Il giubileo della misericordia continua nelle nostre azioni di chiesa, chiamata a curare le ferite della nostra terra. Un’indicazione bella che il giubileo ci consegna è lavorare affinchè “le opere di misericordia siano accompagnate dalla ricerca di una vera giustizia sociale, per elevare il livello di vita” (Apparecida, 385). C’è bisogno di più giustizia sociale nella nostra terra. Tradiremmo la nostra terra e le attese comuni se restassimo “ai margini della lotta per la giustizia” (Deus caritas est, 28). Ogni nostro percorso di evangelizzazione sarebbe inefficace senza un cammino di “promozione umana e di autentica liberazione cristiana, condizione senza la quale non è possibile un ordine giusto nella società” (Benedetto XVI). L’esperienza cristiana deve necessariamente “provocare conseguenze sociali”(EG 180). In questa prospettiva siamo chiamati ad essere più attenti alla realtà sociale e alle sue problematiche. Non possiamo depotenziare il Vangelo del suo “contenuto ineludibilmente sociale”. Tutti, sacerdoti e fedeli laici, siamo coinvolti nella costruzione di una società più giusta. Adoperiamoci perché venga scardinata ogni mentalità mafiosa, che toglie speranza e futuro ai giovani della nostra terra. Lasciamoci guidare durante quest’anno pastorale dalla preoccupazione che il Vangelo diventi vera forza di rinnovamento dei rapporti sociali, di liberazione dai legami, dalle appartenenze equivoche e da ogni compromesso col male.

In questa penultima domenica del Tempo Ordinario, la Parola di Dio riporta la riflessione sul senso della storia presente e sul giorno del Signore. Aiuta a capire che il Signore ci prende sul serio, dà importanza alle nostre azioni e decisioni. Non è vero che davanti a Lui un’azione vale l’altra; al contrario ogni nostra scelta e tutti i gesti che ne conseguono saranno da Lui valutati: positivamente, se posti a servizio del Regno di Dio, negativamente se orientati solo al nostro interesse e tornaconto. Il Vangelo parla di “sole di giustizia” che splende sulle azioni positive e di “forno ardente” che brucia gli empi. Di certo grande è la differenza tra il “sole di giustizia” e la “fornace ardente”, così come la differenza tra un’azione e l’altra. Incombe il giudizio di Dio sui superbi e sugli operatori d’ingiustizia, ma il sole di giustizia sorge sui timorati del Signore. Il giudizio di Dio è fondato sulla giustizia (“il Signore giudicherà il mondo con giustizia”). Per questo nell’esistenza terrena dobbiamo scegliere chi essere davanti a Dio e al prossimo, ovvero da che parte stare. Dopo non si sarà più tempo.

Nell’attesa del giorno del Signore, siamo responsabili nella costruzione della città terrena, ognuno impegnato con il proprio umile lavoro quotidiano a prendersi cura della storia presente, della terra e delle sue ferite, dei fallimenti e delle sofferenze degli uomini. L’Apostolo Paolo richiama i cristiani di Tessalonica a rimboccarsi le maniche e a guadagnarsi onestamente il cibo. A nessuno è consentito vivere nell’ozio, in attesa passiva, senza lavorare o, peggio, vivendo alle spalle degli altri. Egli stesso non è rimasto ozioso e non ha mangiato gratuitamente il pane non suo, ma ha lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno. San Paolo rimprovera severamente quei cristiani di Tessalonica, che hanno preferito vivere disordinatamente, “senza fare nulla e sempre in agitazione”. Ad essi ordina “di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”. Ed aggiunge: “Chi non vuole lavorare, neppure mangi” (2Ts 3,7-12).

Un’espressione quest’ultima che può apparire provocatoria nella nostra terra: in tempi come i nostri molti non lavorano, non certo per scelta! La disoccupazione è il più grave dei mali che affliggono questo territorio ancora più pesantemente che altre regioni. La nostra terra senza lavoro perde la sua dignità. La mancanza di lavoro, specie tra i giovani, è la piaga sociale più grave. Come può un giovane disoccupato senza prospettive affidabili programmare la sua vita? Sognare una famiglia? Pensare di concorrere al bene comune? Quando c’è crisi di lavoro ed il bisogno è più forte, aumenta il lavoro nero, il lavoro-schiavo, mal remunerato, senza la dovuta sicurezza, senza il rispetto del riposo, della festa e della famiglia. Questa situazione favorisce il rischio di affidarsi alla malavita organizzata o il darsi al gioco d’azzardo che inganna e crea illusioni, la tentazione di ricorrere a qualunque attività illecita, come la coltivazione di cannabis, lo spaccio di droga. Queste attività creano solo l’illusione del benessere, finendo col provocare morte. Diciamo con forza che non vanno perseguite.

Nonostante tutti questi pesanti fardelli credo che il senso della forte espressione di San Paolo sia da ricercare in un atteggiamento di indomita speranza. Il futuro e la discendenza della nostra terra risiedono in una speranza che va oltre ogni ragionevole evidenza, una speranza sorretta dalla fede in Gesù, che non ci abbandona e che lotta insieme a noi. Non è una speranza teorica o sentimentale, un’attesa passiva di qualcosa di magico che un giorno accadrà e ci consentirà di trovare lavoro ed equità nella nostra terra. No, San Paolo parla di una speranza che non sta ad aspettare con le mani nelle mani, ma di una speranza che si dà da fare, che se non ha un lavoro se lo inventa, anche con poco, anche a costo di “spigolare” nei campi come faceva Ruth prima di incontrare Booz. E’ una speranza che non aspetta che le risposte ai problemi vengano calate dall’alto. Dall’alto non arrivano le risposte ai nostri problemi, nè tantomeno arriveranno dalla politica. Arriveranno solo se noi ci rimboccheremo le maniche, se metteremo da parte la nostra diffidenza e uniremo le forze, se ci spremeremo le meningi inventando qualcosa di nuovo, se avremo la pazienza di provare, sbagliare, rialzarci e riprovare con umiltà, imparando dai nostri errori.

Chi non vuole lavorare, neppure mangi“. Non è una moralistica punizione all’ozio. San Paolo vuole semplicemente dirci che non ci sarà futuro se staremo solo a lamentarci, seppure per giusti motivi. Non mangeremo se staremo fermi ad aspettare che lo Stato o qualche politico o qualche mafioso ci dia pane e lavoro. Mangeremo solo se non staremo ad attendere oziosi il lavoro che non c’è. Se è difficile trovare lavoro da soli, una via più percorribile è quella di mettersi insieme e creare alleanze lavorative attraverso la cooperazione. Lavorare insieme e crescere nella cooperazione. Ma c’è un pesante macigno da superare: la mentalità individualistica, il pensare di poter fare da sé.

Sorretti dalla fede in Gesù che non ci abbandona e con la santa testardaggine di noi Calabresi, mangeremo se inizieremo a lavorare anche senza avere un lavoro, semplicemente iniziando a fare ciò che sappiamo fare, imparando a fare ancora meglio ciò che sappiamo fare, mettendoci insieme, unendo le forze, sudando col cervello per trovare idee e strade nuove che diano pane alle nostre famiglie e opportunità al nostro territorio. Non stiamo parlando di sogni irrealizzabili: molti ci stanno provando e pur tra mille problemi ci stanno anche riuscendo. Il bell’esempio di fare cooperative da parte di chi mi ha preceduto è stato un percorso bello, forse difficile da imitare, ma che non si è tradotto in mentalità e stile di comportamento. Il Progetto Policoro in diocesi è un “segno di speranza, che rimane tale, forse troppo piccolo, perché espressione di una buona volontà che non trova l’accoglienza che meriterebbe.

Come più volte detto, il nuovo anno pastorale sarà all’insegna della famiglia. Ci lasceremo illuminare dallo Spirito e lavoreremo, in modo da orientare la nostra pastorale “ordinaria” in pastorale “familiare”. Faremo nostra la riflessione dell’Amoris Laetitia, volgendo uno sguardo speciale alla famiglia, e soprattutto alle famiglie più fragili e bisognose di vicinanza. Senza dimenticare che nella nostra terra la famiglia soffre troppi condizionamenti ambientali e culturali. Condizionamenti che, unitamente ad una mentalità chiusa negli schemi di una religiosità tradizionale e devozionale-sacramentale, ostacolano l’accoglienza del Vangelo e le sue esigenze di trasformazione sociale e di conversione interiore.

Affidiamo al Signore questo nuovo anno pastorale. Lui solo sa quel che c’è nel nostro cuore. Ci ha chiamati alla vita perché ci ama, ci accompagna e non vuole che nessuno si perda. Ci chiede però di perseverare nel suo amore. E quand’anche il male in noi e attorno a noi sembrasse prevalere, ritroviamo la forza di andare avanti, sapendo, come ci dice Gesù, che “nemmeno un capello del nostro capo andrà perduto”.