Non stanchiamoci di SEMINARE

postato in: Vescovo | 0
A due anni dall’inizio del suo ministero episcopale, il Vescovo Oliva scrive ai sacerdoti

Torre di Ruggiero, 20 luglio 2016

Carissimi confratelli sacerdoti,
Vi scrivo mentre condivido con un gruppo di voi questi esercizi spirituali. Lo faccio anche per ringraziarvi di questi due anni di ministero episcopale che il Signore mi ha fatto vivere con voi. Vi ringrazio per quanto mi avete dato in amicizia, stima e condivisione. Il tutto per il bene della Chiesa alla quale abbiamo consacrato tutta la nostra vita. Nel ringraziare il Signore di questi due anni ho tanto pregato per me e per tutti voi, che formate quel presbiterio diocesano che condivide con me fatiche e speranze, ma anche la bellezza di una vocazione che si fa dono e servizio di amore.
La circostanza odierna non è un semplice voler ricordare o contare gli anni che passano, quanto un rinnovare davanti al Signore un impegno di fedeltà, un affidare a Lui questo percorso di fede ed il cammino pastorale, iniziato con voi due anni fa. Un tempo per me molto arricchente, ma altrettanto bello ed impegnativo.
Lo è stato nell’incontro e nella relazione con ciascuno di voi, carissimi confratelli sacerdoti. Una relazione pastorale, che ho inteso impostare sul rispetto reciproco, la lealtà e la responsabile collaborazione. Solo il Signore sa fino a che punto ci siamo riusciti. Di certo, rimane la volontà di continuare, accettando – perché no – ogni vostro saggio consiglio.
So quanto posto occupa nel cuore di Dio la vita di ciascuno di voi. In più occasioni ho ricordato a me stesso e a voi che ciascun sacerdote porta nella propria carne un progetto di amore che il Signore ha pensato per lui e che intende realizzare attraverso di lui. Nessun altro può portarlo al suo posto. Mi rifaccio al testo del profeta Geremia che abbiamo ascoltato nella liturgia di oggi. Il profeta richiama con un’intensità espressiva unica ed una formidabile profondità di pensiero la bellezza della vocazione, che si innesta nella fragilità della condizione personale di ciascuno:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni». Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane. Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò. Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te
per proteggerti».  E’ il diario di una vocazione, un colloquio tra Dio che chiama e l’uomo che risponde, la rivelazione di un mistero di amore che affonda le sue radici nell’eternità.
Il profeta sembra manifestare una duplice consapevolezza: da una parte quella della missione ricevuta e dall’altra quella dell’inadeguatezza personale. Il Signore lo invita a non desistere, a non aver paura, ad osare l’impossibile, perché egli è con Lui. Quanto sono luce per me queste parole! E credo lo siano anche per ciascuno di voi! La vocazione viene da una chiamata, che dà origine ad una relazione di affidamento e di
fiducia, ad un servizio di amore. “Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca, e il Signore mi disse: «Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca. Vedi, oggi ti dò autorità sopra le nazioni e sopra i regni per
sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”. La mano del Signore è sul chiamato: è una mano stesa su ciascuno di noi, ci protegge. Ci stimola. Ci spinge ad andare. Il Signore tocca la bocca del profeta e lo rende capace di parlare, di comunicare l’amore del Signore. Nasce da qui, da questo tocco di Dio, una relazione pastorale di evangelizzazione e di salvezza. Ugualmente il Signore dona la forza
“per edificare e piantare”.  E’ una storia vocazionale, quella di Geremia, che ci dona la consapevolezza che non siamo stati noi ad esserci auto proclamati o proposti. Né io nel mio essere vescovo e neppure voi nel vostro essere presbiteri. Neppure ci siamo scelti il ministero che ci è stato affidato. Nessuna paura allora per la propria inadeguatezza. Il Signore è capace di trasformarla in risorsa. Lasciamo fare a Lui, non riservando nulla di noi per noi. Come ci aiuta a capire Geremia, siamo fatti per Lui da sempre e la nostra vita al di fuori di questo progetto è una relazione di amore che subito muore. Personalmente non vedo la mia esistenza al di fuori di questo progetto che mi lega a voi e alla nostra bella Chiesa diocesana.
Lo ribadisco ancora una volta: sono contento di Voi e di tutto il presbiterio. Sento che mi appartenete e soprattutto che la mia missione di Vescovo si compie attraverso il lavoro e la fatica quotidiana di ciascuno di voi. Sento di amare ciascuno di voi, anche quando sono chiamato a prendere delle decisioni che possono apparirvi “impopolari”. Se lo faccio, è per il bene personale del sacerdote e soprattutto della comunità. Soffro, quando qualcuno stenta a camminare o fatica a costruire rapporti di amicizia e di collaborazione con gli altri confratelli. Mi rendo conto come le difficoltà relazionali possono creare disagi e rendere più difficoltoso il ministero sacro. Ma non possiamo evitare di camminare insieme e di costruire insieme. Il ministero del sacerdote non è sganciabile dalla realtà del presbiterio. Non dimentichiamolo mai. Un parroco non può vivere il suo ministero in solitudine, perché la parrocchia affidata alle sue cure non è una comunità a sé rispetto alla diocesi. Parrocchie, associazioni, movimenti, fedeli tutti costituiscono una realtà che cammina lungo la stessa strada, che è la sequela di Cristo. E non entrano mai in competizione. La relazione sacerdotale è articolata e complessa: comprende la relazione con i fedeli parrocchiani, praticanti e non, domiciliati o di passaggio, concittadini o migranti, ma anche – e non in secondo ordine – quella con i confratelli e col vescovo.
E’ una relazione a più livelli correlati fra loro: a livello umano, spirituale e pastorale. L’efficacia del ministero, che richiede sempre concreta collaborazione e comunione, dipende dalla qualità di queste relazioni. Quando esse vengono meno o vengono vissute male, il sacerdote si esaurisce nell’essere il professionista del sacro, che poco o nulla contribuisce all’edificazione della comunità cristiana. Il bene e la felicità di quanti incontriamo sul nostro cammino dipendono molto dal modo in cui viviamo il Sacerdozio di Cristo. Mi rendo perciò conto che vivere il presbiterio diocesano nella sua realtà più profonda è un compito ed una grande responsabilità. Solo nell’unità del presbiterio evangelizziamo, rendiamo lode al Signore, rendiamo vera testimonianza di carità.
Perciò vi chiedo di pregare, ma anche di operare concretamente in questa direzione. Vivere lo spirito del presbiterio – nonostante i ritardi, che si possono accumulare, le difficoltà e fatiche che si possono incontrare – è il segreto che ci porta a guardare avanti con speranza e fiducia. Non trascorra il giorno senza che siamo riconciliati con i fratelli. Personalmente sono convinto dell’insostituibile ruolo di tutti e di ciascuno. Ho sempre confidato in questi due anni nella generosità e nel senso di responsabilità di ciascuno. Lo so e ne sono certo: possiamo e dobbiamo fare di più. Ce lo chiede il Signore, che, scegliendoci, ha avuto fiducia di ciascuno di noi: ci ha prediletto ed accompagnati con amore di padre. A Lui dico con grande sincerità: “Grazie, Signore, del cammino fatto, ma anche per le prove incontrate e superate. Grazie delle fatiche e delle cadute. Rafforza in tutti noi la consapevolezza che tutto è grazia e se siamo in grado di andare avanti è perché Tu ci accompagni e non ci fai mancare la tua vicinanza, discreta quanto amorevole e sicura”.
Carissimi confratelli sacerdoti, il tempo trascorso mi è bastato per comprendere la ricchezza di umanità della nostra gente, la sua fede spontanea e semplice, tanto radicata in una tradizione inveterata e di
forte matrice mariana. Il nostro popolo della Locride possiede una dignità che a nessuno è lecito intaccare.
È la dignità di chi porta nella vita tanta sofferenza, il disagio di contesti e situazioni difficili, di chi troppo spesso si trova come unica alternativa guardare altrove, di chi sa che i propri figli dovranno cercare altri lidi per realizzare i propri sogni. Ho spesso in questo tempo invitato a rendere la scelta di fede meno formalistica e devozionale, più incarnata ed operativa. Lo sappiamo bene: una fede che non trasforma la vita è una fede debole. Una fede debole non è la fede di coloro che hanno incontrato il Signore. Per questo nella mia lettera pastorale ho invitato a vivere la liturgia come lode a Dio, coniugando bellezza e sobrietà, offerta a Dio e carità verso i poveri. Con le mani di Marta ed il cuore di Maria, operosa e contemplativa nello stesso tempo. È un sogno, che ho affidato alle cure pastorali di ciascuno di voi. Ho scritto nello stemma episcopale: “speravi in misericordia Dei”, “mi abbandono alla sua fedeltà “, più che alla sua onnipotenza. È nella debolezza che si manifesta la sua forza.
Il Signore ci ama con una fedeltà senza limiti, che “polverizza” ogni nostra paura di perderlo o di stancarlo. Dio è il “fedele” per eccellenza. Il suo Amore non s’incrina nè viene meno. E allora non ci resta che abbandonarci alla sua fedeltà non per un giorno, ma “ora e per sempre”. Per me questo vuol dire lasciarmi abbracciare da Lui in quel vortice di tenerezza che unifica e pacifica tutto il mio essere. Con questo abbandono pieno, costante e fiducioso, oso rivolgermi al Signore: “Signore, dammi il Tuo Spirito Santo e fa di me un ulivo nella Tua chiesa, che nella pace del cuore, si abbandona a Te. Con tutto quello che sono, con tutto quello che ho, fà che io creda alla tua fedeltà, al Tuo essere Amore, ora e per sempre, nel primo giorno come nell’ultimo”.
Il Vangelo di oggi presenta l’icona meravigliosa di Gesù maestro che esce di casa per andare in riva al mare. Esce da una condizione di familiarità, dalla sicurezza della sua vita privata, anche se Gesù non ha una vita privata. Tutti lo cercano, tutti lo accostano, tutti vogliono vederlo, anche se non tutti poi sono pronti a seguirlo. Esce di casa per mettersi seduto in riva al mare ed entrare in familiarità col Padre. Ma il suo sostare non ha tregua. E’ tanta la folla che lo cerca, che cerca il regno  di Dio. Gesù insegna dalla barca. La barca è anche simbolo della Chiesa. E perciò anch’essa è chiamata ad essere “madre e maestra”.
Gesù sulla barca insegna in parabole, vuole meglio comunicare con gli ascoltatori, entrare più profondamente in sintonia con essi. Parte dalle situazioni di vita quotidiana:
l’esperienza della seminagione doveva essere allora praticata da molti tra quelli che lo ascoltavano. Gesù che parla è il vero seminatore. È un seminatore che non fa calcoli, semina senza risparmio, semina ovunque, anche laddove è impossibile pensare di poter raccogliere. Il seminatore icona di Gesù non si risparmia e dispensa a tutti con generosità impensabile il seme della parola. Nel Regno di Dio che Gesù inaugura non c’è lavoro inutile, non c’è spreco. La semina non conosce calcoli, si semina con larghezza. Non si sa in partenza quali terreni daranno frutto: perciò non si può anticipare il giudizio di Dio.
Il seme-parola di Gesù chiede di piantarsi nel terreno della nostra esistenza, per fruttificare. L’esperienza però ci mostra come la storia del seme conosce diverse vicissitudini, a seconda dove cade: c’è chi si chiude, chi è superficiale, chi non si decide per il Signore e chi, infine, accoglie in sé quella parola.
Una domanda desidero consegnare a ciascuno: siamo seminatori arditi che sanno seminare anche laddove ad una prima valutazione non sembrerebbe opportuno? Sono pronto a seminare laddove nessuno oserebbe? Penso alle periferie esistenziali del nostro mondo? A quegli ambiti sociale dove la Parola non arriva ordinariamente? Quale terreno trova nella mia vita il seme della Parola che ogni giorno spezzo e condivido con i fratelli? E’ un seme che passa per le mie mani e non lascia traccia oppure orienta la mia vita e lemie scelte?

L’icona del seminatore riflette la nostra esperienza sacerdotale. Quanto bene seminato finisce lungo la strada, o su terreni sassosi o sui rovi. Ma c’è anche tanto seme che cade in terra buona, che trova l’ambiente adatto per fruttificare. Nonostante tutto, la parabola è un invito a seminare comunque, a seminare ovunque senza stancarsi. Il seguito spetta al Signore che come il buon agricoltore fa piovere sui buoni e sui cattivi.
Non stanchiamoci mai di seminare il buon seme della Parola. C’è certezza che produrrà. Non stanchiamoci di aprire le porte della salvezza, ci sarà chi entrerà.
Ciò che non va fatto è fermarsi ai bordi della strada ad aspettare che qualcuno cammini e fatichi al nostro posto. A tutti chiedo la bontà di una preghiera per me.

Anch’io offro ogni giorno per voi la santa Eucaristia. Grazie.

f